mercoledì 20 gennaio 2016

Paternità: mio figlio conta di pi


.. della carriera, della dedizione totale al lavoro, del giovedì a calcetto. Per le donne è normale pensarlo, gli uomini cominciano ora. E spesso, in ufficio, la pagano cara...


Andrea, 45 anni, separato da quattro, martedì e venerdì esce dall’ufficio alle 16 per prendere le due gemelle all’uscita di scuola (seconda elementare) e tenerle con sé fino all’indomani. Nella divisione dei compiti di cura tra lui e l’ex moglie, architetto, gli toccano anche il pediatra e lo sport del sabato mattina e se le bambine si ammalano si fa un giorno per uno. L’organizzazione per la cooperazione internazionale dove Andrea lavora, in teoria, potrebbe essere un posto di lavoro all’avanguardia e apprezzare il suo ruolo di padre attivo e invece, spiega lui, «mal sopportano che io, maschio, necessiti di flessibilità.Considerano stravagante ed eccessivo questo mio occuparmi delle figlie. Eppure non ho mai sgarrato nei risultati». 

I GRANDI MANAGER. Nel frattempo la scorsa estate Max Schireson, amministratore delegato di MongoDB ha lasciato il “miglior lavoro di sempre” per essere un padre presente e supportare la carriera della moglie docente a Stanford. Negli stessi giorni Bob Moritz, presidente della società di revisione Pwc, ha scritto un articolo per invitare gli uomini a discutere di cura e conciliazione. E la storia di Todd Bedrick, assurance manager alla Ernst & Young, sei mesi di paternità per imparare a fare il padre e agevolare il ritorno della moglie all’insegnamento, ha ispirato un articolo del New York Times che si è chiesto: allontanarsi dal lavoro dopo un figlio ha conseguenze negative sulla carriera di un uomo? Con molte probabilità sì, è stata la risposta.
 
TUTTO QUESTO SUONA FAMILIARE A NOI DONNE esperte del funambolico mondo della conciliazione tra casa e ufficio. Dove, per la prima volta, fa capolino un numero crescente di padri che si occupa dei figli per piacere e per dovere, spartisce il lavoro domestico, cucina e fa la spesa. Un’esperienza di amore e di conflitto che li porta «a umanizzarsi, smarcandosi da un’idea di mascolinità granitica insensata, distante dall’affetto, uscendo da una gabbia culturale ormai stretta», come spiega Elisabetta Ruspini.

UNO STUDIO Elisabetta Raspini è sociologa docente all’università Bicocca di Milano che sta per pubblicare negli Usa, con la collega Isabella Crespi il testoMen, work-life balance and family policy, ovvero uno studio sulle esperienze maschili nella conciliazione tra cura dei figli e lavoro. Nove i Paesi coinvolti tra cui Italia, Polonia, Inghilterra e Svezia: «L’Europa coglie questo cambiamento, lo studia e investe sull’equità di genere anche sostenendo con politiche specifiche l’impegno dei padri. Con realismo però: i tre mesi di congedo di paternità retribuito previsti in Islanda sono impensabili in Italia, manca la cultura per recepirli».

CONGEDO DI PATERNITA' IN ITALIA. Qui da noi la legge prevede tre giorni a casa senza decurtazione di stipendio entro i primi cinque mesi del bambino. E fino a sette mesi di congedo parentale in alternanza con la madre, che però sfruttano in pochi. Sia chiaro. Il lavoro di cura pesa ancora, per tre quarti, sulle donne. Nel regno delle buone intenzioni, secondo l’89,2 per cento degli italiani, gli uomini dovrebbero partecipare di più alla cura dei figli. Secondo l’87,4 per cento, se entrambi i genitori lavorano fuori casa, l’accudimento domestico dovrebbe essere paritario (dati Istat). Nella pratica delle coppie occupate, invece, l’asimmetria dell’impegno è del 71,2 per cento. Però tra gli under 35 la percentuale scende, soprattutto tra insegnanti (64,7 per cento), laureati (65,2 per cento) e nella zona del Centro Nord (68,4 per cento). In generale, nel 2009 (ultimo dato disponibile) le lavoratrici avevano ridotto di 12 minuti al giorno l’impegno domestico (per un totale di 73 ore in un anno), mentre gli uomini l’avevano incrementato di quattro minuti (24 ore all’anno). 

UOMINI: NUOVI ALLEATI? Scoprire, seppur lentamente, delizie e croci del lavoro di cura farà degli uomini i nostri nuovi alleati per chiedere un’organizzazione del lavoro più flessibile e raggiungere più velocemente l’equità? Ci crede Anne Marie Slaughter, ex staff di Obama, capo del think tank New America Foundation: «La prossima rivoluzione sarà maschile». E ci crede anche l’Onu, che ha lanciato la campagna #HeForShe, con testimonial Emma Watson (“Gli uomini nostri alleati verso la parità”). Ma loro, i diretti interessati, che ne pensano? Hanno voglia di fare delle loro esperienze di cura una questione politica?
Manlio, 52 anni, cinque figli dai 18 ai due anni, responsabile di una prestigiosa distribuzione di vini, non ne è convinto: «Con colleghi e capi è meglio non discutere di queste cose, né approfittare di permessi o ferie. Anche se a casa hai tanto da fare, in ufficio devi dare l’impressione di seguire i loro stessi orari ed essere in grado di organizzarti da solo. Essere valutati dai risultati e non dal tempo trascorso al lavoro? È una favoletta. Al primo errore, la tua flessibilità diventa fonte di guai». La pensa allo stesso modo l’80 per cento degli uomini intervistati in uno studio dal Boston College sui “padri impegnati”: meglio seguire un percorso informale per prendersi tempo da dedicare ai figli, senza chiamarlo ufficialmente congedo di paternità. Insomma, lo si fa, ma senza trasformarlo in una rivendicazione. 

UNO STILE DI VITA. Lo si mette in pratica, diventa uno stile di vita. Come per Simone Regazzoni: insegna filosofia all’università di Pavia, è direttore della casa editrice Il melangolo, scrittore (Abyss di Longanesi, ottimo esordio estivo, ora avrà un sequel) e anche portavoce di Raffaella Paita, candidata alla presidenza della Regione Liguria, ed è il papà presente di Julia, quattro anni. «Quando è arrivata la bambina non mi sono arrangiato “trovando buchi”, ma ho proprio riorganizzato la mia vita. Per esempio, della poppata notturna mi sono sempre occupato io. In quelle ore ho iniziato a scrivere, in quello spazio è nato il mio romanzo. Al mattino mia moglie esce presto, io preparo la bambina e la porto a scuola, dalle sei di sera sono sempre a casa. Sono fortunato, ho orari flessibili; ma quanti, anche potendo, alla cura dei figli preferiscono l’aperitivo, il calcetto o altre cose da Peter Pan?». Regazzoni preferisce testimoniare un modo di essere padre e non mettersi nemmeno a discuterne con i suoi pari: «Se ci provi, si irrigidiscono. Senza generalizzare: tra i miei coetanei vedo due categorie prevalenti. Maschi tradizionalisti e mogli sovraccariche oppure, all’opposto, mammi, che abdicano al loro ruolo sostituendosi alle madri. Entrambi spesso in crisi di coppia». Chi ha ragione? Il dibattito è aperto, maschi fatevi avanti! Con le parole e, finalmente, anche con i fatti. 

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